domenica 31 luglio 2016

Tanoressia di un Pallido


L’aria brucia, il respiro è difficile, pesante. Ho gli occhi in fiamme e la crema solare scivola in bocca. Ha un sapore amarognolo in bocca, lo stesso del sapone. Sono steso sulla sabbia e se mi alzo troppo velocemente rischio un collasso; la bassa pressione non mi è di aiuto. Eppure devo farlo, alzarmi, devo lanciarmi in acqua e rinfrescarmi. Ma nella mia testa ho un dubbio: interromperò l’abbronzatura?

Che io mi ricordi non ho mai avuto un buon ricordo del mare. Mio padre aveva una sorta di fissazione, ma a lui, a essere sinceri, piaceva il lato romantico. La spuma sugli scogli, la dreher sulla sabbia, le foto. Gli piaceva posizionarmi su un materassino giallo, con la testa da papera e lasciarmi giocare a riva.
Ci sono io che muovo le braccia convulsamente.
Ci sono io che voglio andare via.
Forse ci sono stati tempi in cui ero felice, a mare, ogni giorno. D’estate.
Ma effettivamente ero fin troppo piccolo per capire dove fossi, cosa stessi facendo. Lo ero nel mio modo di giocare, di spingermi a largo e tornare indietro, Non ti allontantare!
Il mio rapporto con l’acqua, però, non è stato sempre bello.
Ci sono io in piscina, ci sono io rimproverato dall’istruttrice.
Ci sono io che vado via, ci sono io che dico a mio padre, Mai più!

La mia pelle è dorata, ha una leggera panatura, la stessa di una frittura. Poi noto dei punti in cui il rossore è più forte. Stando a quanto ho imparato negli anni significa che mi sono abbronzato. Dentro di me sono contento. Provo un senso di felicità. Questo significa essere salentini?
Minuti insopportabili, ore trascorse al sole, organizzazione, panini, acqua fredda, sigarette, discorsi qualunquisti, sdraio, parole crociate, olio.
Sono pronto.
Quest’estate sarò dei loro.
Sarò accettato.
Nessuno mi dirà, E non vai a mare?!

Un bacio ce l’ha tatuato sul collo. Il contorno delle labbra disegnate è perfetto. Rosso vermiglio, piccole striature intorno. È lì, disegnato. Evidente. Non si può far finta di niente.
Quel colore così acceso pare sia in pandan con il rosso delle venuzze nel bianco degli occhi.
Quegli occhi sono grandi. La pelle marrone, la canotta bianca.
Lo osservi camminare e sai che, si sente sicuro di sé. Ma è tutto finto. Se lo vedeste di inverno, non gli attribuireste la stessa sicurezza. E io lo so perché: l’a b b r o n z a t u r a.
L’estate, nel Salento, il bianco pallido è ghettizzato.
Non ha senso avere spiagge così belle se non si va mare, le persone vanno fuori di testa con un, Non mi piace al mare. Stentano a crederci. È impossibile.

E allora andiamoci, p r o v i a m o.

Dopo una giornata sono arrossato, ho buone possibilità di diventare abbronzato, come mai nella mia vita e le persone intorno a me pare sorridano diversamente.
Esiste un leggero razzismo tra le persone abbronzate e non. Bianco con le occhiaie non sei degno. Sei lo spauracchio dell’inverno.
Forse hanno ragione
Forse.

Sulla spiaggia la sabbia è bollente e mentre cammino sento i granuli finissimi scivolare sotto i palmi. Il sole trafigge. L’acqua del mare è un miraggio. Provo a tuffarmi, lasciando una scia di schiuma. Sott’acqua ho la sensazione che un mondo diverso sia possibile, che forse qualcosa di bello c’è. Ma sono costretto a risalire, tornando alla realtà. Calda e afosa.
C’è quell’idea di essere distanti anni luce dai problemi, il mare è lontano.
Alle persone piace per questo.
Ho comprato un’acqua abbronzante. Il negozio profumava di ammorbidente, gli scaffali ordinati.
L’ho messa in borsa, insieme ad asciugamano e merenda, e una bottiglia d’acqua grande.

Una ragazza ha accostato il suo braccio al mio e mi ha detto, Cavolo, come sei abbronzato. È la prima volta che ti vedo così. Bravo!
Mi ha detto bravo, mi sento bene.

Ma non posso più andare a prendere il sole.
Almeno per il momento.

No, dopo due giorni non sono più abbronzato. Non ho tempo di andare al mare.
Sento una sorta di senso di colpa: come se avessi tradito tutti.
No, non sto andando più al mare, perdonatemi.
Anzi: l a s c i a t e m i i n p a c e.
Spunti come un fungo tra i marroncini sul corso principale. Quella bianchezza, quel pallore. Lo hai visto solo nei quadri ottocenteschi, i nobili. Tu non lo sei, un nobile. Oppure i tedeschi. Famosi per la loro anemia. Ma quelli sono albini. Non sono felici.
Nessun pallido lo è.

Sono ora chiuso in camera.
Guardo la venuzze che si diramano sul mio epitelio. I peli neri. Si vede tutto. Sono trasparente.
Non posso uscire.
Penso.

Felicità, cos’è?

·      È andare a mare, è l’estate.

·      Sono le ferie ad agosto.

·      Quaranta gradi all’ombra.

·      Bere una bella birra in riva al mare.


Calcolo la mia settimana, il mio ultimo mese in modo tale da ricavare delle ore da dedicare al mare. Il vero Dio. È diventato anche il mio. Così bello, mosso, blu, trasparente.
Progetto un modo per lavorare con una leggera abbronzatura.
Se vado due ore prima, verso mezzogiorno, il sole sarà così caldo da arrossarmi.
Mi diranno, Sei andato al mare, vero?
Mi diranno, Bravo che ti godi la vita.
Sarò contento, con i miei calcoli, il mare mi aspetta. Devo comprare uno zainetto alla moda e un costume e devo portare anche i racchettoni.
Devo organizzarmi, di nuovo, non posso rinunciare alla spiaggia.
Sono Salentino.
Oddio, la luce entra dalla mia camera, devo prendere dell’olio.
Forse riesco a catturare qualche raggio.


Che io mi ricordi non sono mai stato così felice al mare.

marcodemitri®

sabato 16 aprile 2016

Un cornetto alle 3AM

La luce dei lampioni macchiava le tenebre della notte mentre una soffice nebbia avvolgeva le poche auto ferme sulla strada. Immobile, spettrale, nell’angolo di un incrocio poco trafficato una bar \ panetteria si ergeva a meta di ristoro per i giovani e anziani che di tornare presto a casa non avevano la minima intenzione. E a dire il vero: quel posto era riservato anche a chi non conosceva la parola dieta.
Due ragazzi, imbellettati nel migliore dei modi, che il sabato sera per loro era più che una festa: una sfilata, si dirigevano verso quel posto. L’auto lasciata in diagonale, tanto nessuno avrebbe avuto da ridire, si muovevano lanciando sguardi fieri in quella landa desolata. Le persone sostavano in uno spazio angusto, dove alcuni sedevano su sedie colorate, mentre altri in piedi chiacchieravano gustando, divorando, cornetti farciti e zucchero a velo cadeva lentamente.
Hai sentito di Alice?


Chi?
Alice, come chi?
Ah..ò.
Dalla bellezza dei loro volti, le parole fuoriuscivano imprigionate nell’accento forte della loro città.
Tu cosa prendi?
Un cornetto alla crema. Ma lascia che pago io.
No, fermo, ci penso io che tu mi hai offerto il sex on the beach.
Potevo anche non dirlo il nome, meglio così però, qualcuno mi ha guardato.
Mattia pagò anche per Stefano e i due uscirono dal locale dalle luci calde e gremito di gente in fila. Molti si affollavano sul bancone, innamorati da quelle leccornie colorate e altri erano lì ad ammorbarsi di interrogativi per una sabato sera non andato esattamente secondo i piani.
Si spintonavano, addobbati in festa, dagli abiti alla moda con i risvolti tirati all’insù e gli occhi lucidi di sonnolenza. Sapevano che il giorno dopo sarebbe stato un giorno di riposo e ne approfittavano spingendo il loro fisico fino al massimo che potevano.
Allora questa Alice la conosci o no?
No, Mattia, no. Non mi viene in mente nessuna Alice.
Che delusione, Ste. È una gran figa. Quella mora, con i capelli a caschetto che lavora in quel negozio d’abbigliamento. Possibile non ricordi?
Ah, adesso ricordo. Ma è solo questo: una gran figa e basta. Non mi ricordo altro.
Sì, e che te ne frega? Te la devi scopare e basta.
Dicevo… non mi ricordo che si sapesse vestire o altro.
Questo è vero. Ma come ti ho detto: basta che te la scopi.
E poi non ha un bel culo, dai.
Ma che te frega. Ha due belle tette.
La conversazione correva tra epiteti sfrontati, giochi di parole, e citazioni pornografiche. A Mattia piaceva parlare del seno, delle spagnolette. Lo faceva sentire grande e grosso anche se basso e tarchiato. Per lui saltare su un corpo femminile e infilare il suo pene sulle curve di un seno grosso e tenere stretto quel corpo caldo tra le sue ginocchia era il massimo.
Mentre ne parlava, gli scivolò un brr ed ebbe una erezione.
Cazzo se me la scoperei. Cazzo, sì.
Stefano faceva finta di ascoltare. Il più delle volte si vedeva in terza persona, sono un bel ragazzo alto e grosso, con stile. Vestiva firmato, si profumava e si riempiva il volto di creme; perché non voleva apparire fuori forma all’età di venticinque anni. Non come il padre, che in foto all’età sua sembrava fin troppo vecchio anche per adesso.
Mi piace quando Mattia parla di tette, in molti si girano. E mi guardano.
Stefano dedicava il sabato alla palestra. Da ultimo giorno lavorativo della settimana non poteva uscire senza quell’effetto di vasodilatazione che lo faceva apparire più grosso. Poi, dopo un’ora e mezzo circa, si cibava di una poltiglia biancastra e collosa che il suo personal trainer gli aveva consigliato. Anzi: obbligato.
Non devi attendere molto dalla fine degli esercizi, bevila subito che le proteine ti si mescolano. E cresci, cresci e cresci.
L’ennesimo Cresci suonò estasiante, si emozionò e si eccitò. Ma di quest’ultima reazione un po’se ne vergognò.
I muscoli di entrambi gli avambracci si tesero, innalzandosi, per togliere via la maglietta aderente che aveva scelto per quel giorno, svelando un fisico asciutto e compatto, duro e tonico. Gli addominali scolpiti, e i pettorali gonfi, dove fece scorrere il dito descrivendone le forme. Si mirava allo specchio dello spogliatoio, si toccava languido e sfuggente, immerso nei fumi del vapore dell’acqua calda. Si piaceva e si apprezzava. Si estasiava di eccitazione alla vista di quel corpo così perfetto. Passò infine la mano tra i capelli per sistemarsi il ciuffo che cadeva all’ingiù, bagnato da gocce di sudore; una rugiada grondante sulla pallida pelle sfumata rosa.
Che poi non saprei, Diletta pure mi fa impazzire ma è troppo secca.
Ah, sì. Troppo secca. A me piace un fisico snello.. e…
Vabbè tu sei fissato, Ste. Sei malato.
Ognuno ha i suoi gusti.
Disse stizzito colpito dall’immagine riflessa sulla lamiera dell’auto. Appariva fin troppo gonfia in alcuni punti.
Certe volte non lo sopporto. È troppo vanitoso. Ma fa bene. Vorrei essere come lui. Perché non sono come lui?
Finirono il loro bombolone con la crema, un’eccezione che Stefano a malincuore si concedeva il sabato. E lasciarono cadere le carte per terra, incuranti sia della strada sia delle persone che avrebbero potuto guardarli severi. Avrebbero potuto, infatti, perché erano tutti impegnati in discussioni.
Mattia si accese una sigaretta, con una rapida mossa con lo zippo. Aspirò, tirando via qualche millimetro; la punta lampeggiò e poi si attenuò. Poggiò col ginocchio flesso, il piede sulla ruota dell’auto, attirandosi un’occhiata di Stefano e tenne la sigaretta stretta tra due dita, divertendosi mentre parlava a ruotarla per lasciare dei cerchi di fumo nell’aria. Si sentiva più sicuro di se, con quel veleno.
Stefano si allontanò, invece. Sebbene quell’accessorio lo avrebbe reso più macho, la sigaretta sarebbe stato il male per la sua pelle e il suo fisico e dunque l’apparenza della sua età.
Ti stavo dicendo… Ad Alice devo chiedere il numero. Sì, me la devo fare.
Sì, te la devi fare.
È questione di chimica, inutile. Devo scopare. Basta queste ragazzette con la Smart e la borsa Gucci. Voglio una che vesta almeno Prada e che si sappia comportare.
Secondo me si veste male. Non puoi portare il blu col nero, no.
Tu sei rimasto indietro nel tempo, Ste. Ormai i colori si scambiano e quelli che non riesci a vestire, alla fine, ci riesci ad abbinarli. Prendi i pellicciotti a giacchetta. Non hanno senso! Eppure le grandi fighe sono lì ad indossarli. E tu le guardi e pensi se il pelo lo hanno dentro anche.
Bella questa, si mise a ridere di gusto perché la battuta era geniale.
Davvero! A me farebbe orrore vedere una con il cespuglio. Non siamo mica negli anni ottanta eh. Depilatevi, depilatevi.
Stessa cosa! Si depilano gli uomini, perché non dovrebbero le donne? Non posso restare con i peli tra i denti.
Che schifo, Ste. Adesso non mi leverò più questa immagine dalla testa.
Effettivamente Mattia continuò a pensare a Stefano che praticava del cunnilingus. Ma, vanitoso com’era, se lo immaginò per un momento che correva via in bagno a lavarsi i denti. Non poteva, secondo Mattia, avere il timore di sporcarsi i denti. Questo pensiero lo fece rasserenare con sè stesso, pensando a quanto fosse semplice per lui, non bello quanto Stefano, a prendersi meno sul serio.
Dai Ste, andiamo a farci una giocata a bigliardo. Ci stai?
Ovvio!

L’orologio digitale nell’auto segnava le 4 e 35. Il giorno dopo era giunto, avvistato in in un leggero albeggiare. Per loro però, la notte non era ancora finita. Avevano tappe fissate per ogni ora, del resto non era il loro primo sabato insieme e il giorno dopo non avrebbero avuto nulla da fare.

marcodemitri®

mercoledì 23 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot [Recensione]


Che il cinema super eroistico abbia avuto una inversione di tendenza rispetto al passato è stato testimoniato negli ultimi tempi da due pellicole americane: I Guardiani della Galassia e Deadpool. Una costrizione in parte dovuta da ragioni di mercato e di appeal, cercando dunque nella ironia e nel cinismo nuove vie per rimodernare un genere giovane ma prossimo alla fine. Almeno secondo quanto sostenuto da molti produttori.

Eppure se nel giovane continente si parla già di una possibile fine – come avvenne per i film western – negli altri paesi non si è ancora giunti nemmeno alla cosiddetta età dell’oro.
Accogliendo la lezione e studiandola nei minimi particolari, anche l’Italia ha voluto dire la sua. E lo ha fatto attraverso la visione di un giovane regista esordiente e un manipolo di brillanti sceneggiatori. Non solo, si è voluto osare con materiale esterno e quindi con una serie di fumetti da poco usciti in edicola; un modo per ravvivare e creare una continuity da non esaurire nelle circa due ore di spettacolo.

Parliamo de Lo Chiamavano Jeeg Robot, che con forza dirompente irrompe sulla scena italiana, sconquassando il pubblico reduce dalle risate del film di Zalone o dalle paranoie de Perfetti Sconosciuti.


Superando il limite della scarsa originalità italiana, che copia, che spia, che ripropone commedie già viste, che riecheggia i classicismi dei registi transatlantici, che si mette al sicuro proponendo la solita minestra, il film di Mainetti si inserisce in un contesto poco esplorato nel Bel Paese.
Di grande impatto ma anche di grande rassicurazione, il fatto che cinema italiano abbia finalmente il suo film d’azione, da una parte continuando la tradizione dei nostrani thriller anni settanta e dall’altra inaugurando una nuova era, produttori permettendo.

Con una ripresa aerea veloce, coi palazzi e le case e le viuzze dall’alto, gli inseguimenti poi, e la presentazione del protagonista come fosse un fuggitivo, non c'era modo migliore di iniziare.
Come per dire allo spettatore, seguimi.

Sì, segui la storia di Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), il protagonista.
Un uomo che è nessuno, è di poche parole, che compie piccoli furti per sbancare il lunario. Della gente non gliene può fregare di meno e soprattutto di fare l’eroe. Vive in un quartiere degradato (Tor Bella Monaca), quello delle borgate romane, becero e sporco. Ignorante. E lui si muove con pigrizia e apatia. È l’antieroe, un personaggio costruito sul rifiuto del canone idealista fumettistico anni cinquanta.
Superata la prima parte, da manuale c’è l’entrata in scena del villain interpretato da un ottimo Luca Marinelli, reduce dal successo de Non essere cattivo. Al contrario, è spinto dalla bieca e feroce aspirazione di diventare qualcuno in un contesto criminale asfissiante.
C’è quindi una ottima contrapposizione tra i due volti, i due protagonisti veri e propri della pellicola. A questi si aggiunge una sfera di personaggi che, nelle loro azioni, determinano, le conseguenze delle loro evoluzioni. Da una parte c’è Ilenia, una ragazza che dopo essere rimasta turbata dalla morte della madre svilupperà una malattia per Jeeg Robot e da qui l’inside joke, perché lei vedrà in Enzo l’eroe Hiroshi Shiba, e dall’altra l’organizzazione camorristica, da cui si inizierà a sciogliere la matassa centrale.

Rifiutando il classicismo del tema supereroistico, da una grande potere derivano grandi responsabilità, e appropriandosi di una caratterizzazione tutta italiana, il dilemma del super eroe, della persona che dedica la vita al bene, la forza e l’immortalità, i superpoteri, si concentrano in un caleidoscopio di cattive intenzioni che spingono la storia senza paternalismi o stucchevolezze. Inoltre con l’uso dello splatter e di alcune scene politicamente scorrette, si va oltre per confezionare un prodotto divertente e interessante.
Gabriele Mainetti, il cui estro è stato portato alla luce con Basette e Ultima Spiaggia, porta a compimento una bella idea, che è anche un ottimo punto di partenza per un film di genere. 

marcodemitri®