giovedì 17 settembre 2015

Un Primo Particolare.





L’esperienza più disturbante della mia vita ebbe inizio mentre fissavo la tavola imbandita a casa della nonna.
C’è molta più arte in un piatto di pasta fatta in casa che in un quadro di Dalì, pensai immaginando quel piatto prendere vita come in un musical: orecchiette giallo ocra vestite del grondante sugo rosso piccante e disposte in un conturbante ballo all’ombra di foglioline di verde basilico e, a rendere l’atmosfera più soft, una spolverata di bianco formaggio ricotta.
“Te l’ha mai dittu nisciunu ca nu se fissa?”
Alzai il sopracciglio destro, strabuzzai gli occhi e m’irrigidii.
“A tie sta dicu!”
Mi guardai intorno; poi fissai nuovamente il piatto avvicinando il viso e mi chiesi cosa stesse accadendo.
“L’ha capita allora ca sta te parlu?”
“C – come è possibile?!”
“Suntu quiddhru ca se dice lu piattu te parla pe quantu è bonu!”
“…”
“Dai scherzava!”
“C–cosa vuoi da me?”
“Cu fazzu do chiacchiere: lu tiempu prima cu me mangi!”
“Non ho più fame, guarda.”
“Nu b’essere schizzinosu! Te ulia cu te dicu: pensa prima cu mangi!”
“Cioè?”
“Dha santa cristiana de nonnata m’ha creatu cu dh’amore ca nu se acchia chiu percè siti ormai attrezzati cu surgelati, mechidonalds, sushi. Mai pe iabbu!”
“Uao, un piatto fondamentalista che parla dei valori di una volta mi mancava.”
“C’è si difficile. Pensa ca ste orecchiette enenu de na ricetta semplice: acqua e farina…”
“Ascolta, non conosco bene il dialetto…”
“Madò sti giovani de osce! Vabbè, cercherò di parlare nu picchi in italiano. Sarò tipo Siri: ti guiderò in tre difficili situazioni della tua terra.”
Alchè continuò a vibrare nell’aria solo quella voce mentre con mio sommo stupore il bianco iniziò ad inghiottire la scena.
“Immagina.”
“Puoi?” Risposi, circondato dal lucido candore del nulla.
“APRI LA CAPU, FESSA!”
“Ehi ma così mi ferisci!”

Mi ritrovai in un cielo azzurro; il sole era un astro bollente su un'immensa distesa di oceano verde e all’orizzonte si stagliava un campo di pale eoliche.
Ero stato teletrasportato: mi sentivo leggero, trasparente e pallido.
La strada sconnessa a tratti serpeggiava le campagne, le cicale frinivano e io vivevo un’esperienza extracorporea.
“Con la scusa del risparmio energetico stanno distruggendo la nostra terra. Lo sapevi che qui non crescerà più nulla?“
La situazione che si presentò ai miei occhi era impressionante; eliche che ruotavano imponenti con il tempo dettato dalle forti raffiche di vento.
“Dove siamo?”
“Sei in una delle tante campagne del Salento. Porzioni di terreno tolte ad agricoltori per costruire distese di fotovoltaico. Senti questo rumore?”
“Sì.”
“Sono le enormi pale eoliche: spaventano gli uccelli.”
Più in là l’indicazione turistica segnava “Masseria Papa”; nell’aria l’odore acre del gregge, per molti ma non per me, fastidioso.
“Basta così.” Irruppe.
Fui accecato da una serie di intensi bagliori ed ebbi la sensazione di cadere; le mie urla si dileguarono nell’estensione del vuoto. Poi qualcosa attutì l’atterraggio e aspettai un po’ prima che il frastuono nelle orecchie andasse via; ma non appena riaprii gli occhi capii quale sarebbe stato il mio nuovo scenario.
“Il traffico”. Esordì con tono cupo.
Non ci voleva; ero nella strada principale della città e tra fischi, urla e smog, la geometria andava a farsi benedire: il caos regnava sovrano.
“Conosco molto bene.” Risposi con rammarico.
“La gente non usa i mezzi pubblici, le biciclette, non va a piedi. Trascorre più tempo in quel maledetto abitacolo che con la famiglia ed ha la strana convinzione di poter far prima spostandosi in auto. Ti sembra normale parcheggiare in quel modo, tra l’altro?”

Un uomo che faceva capolino dal finestrino aspirò l'ultimo boccone di fumo, buttò via la sigaretta che emise un piccolo bagliore prima di spegnersi, e suonò il clacson convulsamente.
Un bambino, invece, lanciò via dei pezzetti di carta come fossero coriandoli, che si dileguarono fugaci nel cielo gonfio di nubi.

 “Guarda all’incrocio cosa accade.” Mi indirizzò lo sguardo, col pensiero.
C’era un’auto dietro i vigili urbani e su una corsia preferenziale; appena scattato il verde, l’uomo iniziò a colpire il volante come fosse un sacco da pugile. Gli uomini in divisa, visibilmente compiaciuti, spensero il motore e si avvicinarono, chiedendo i documenti.
“COME VI PERMETTETE?” Si ribellò.
I vigili, così, fecero notare che era in torto ma sembravano non riuscire a calmare l’ira dell’uomo. Il clou della scena, leggete bene perché è divertente, fu raggiunto con l’arrivo della polizia. Dopo essersi fatto quasi investire dalla volante urlò: “Dovete fare qualcosa perché vogliono farmi la multa”.
Insomma, alla fine il signore si beccò anche l’oltraggio a pubblico ufficiale e io, con ancora un sorriso amaro stampato sul volto, iniziai a camminare senza volerlo.
“Che diavolo?!”
Le mie gambe si muovevano da sole facendomi attraversare quello che trovavo sul cammino.
“Adesso viene il bello.”
Ero spinto da una forza che mi guidava come un giocattolo e che mi portò davanti un bar.
“Entra.”
Tuonò.
Le nuvole si fecero più inquietanti, cadde qualche goccia, che scivolò sulle lamiere delle auto, rigandole.
Non avevo scelta e così, entrai.
Non diedi molta importanza alla strana sensazione che mi colse non appena raggiunsi il locale.
La forte fragranza al caffè lo rendeva accogliente e mi fece pensare che anche ad occhi chiusi avrei capito si trattasse di un bar; ma ancora non sapevo che avevo un posto in prima fila per una ultima grande sorpresa.

“Che ci faccio qui? Non mi va un caffè!”
Dissi senza ottenere alcuna risposta.
Rifeci la domanda: niente.
Ero uno spettro in un folto gruppo di persone che attendevano il turno.
Cercai di alzarmi sulle punte dei piedi per scorgere qualche indizio sul perché fossi lì, ma ancora una volta: nulla.
Cavolo - pensai - posso attraversare la materia in qualità di fantasma! Così, dopo essermi concentrato lo feci. Il problema fu la sorpresa che mi si presentò: qualcosa che nemmeno nelle fantasie più egocentriche avrei mai potuto immaginare.

Fermi un momento e riavvolgo il nastro per chiarire un punto. Nel momento in cui sono stato catapultato in questa esperienza, a quanto pare, ho perso i miei ricordi. Non ho più avuto consapevolezza di me stesso, potendo solo osservare e riflettere.
Vi scrivo questo perché ciò che mi si parò davanti non era altro che me stesso.
Quello reale, insomma.

“Surreale” fu la prima parola che mi venne in mente e la sussurrai.
Incuriosito, mi avvicinai. Dopo aver gesticolato come un forsennato e scoperto un paio di punti neri sul naso, capii che lui o me, non so come dire, non avvertiva minimamente la mia, la sua o la nostra presenza.
Ero stato abbandonato a me stesso nel vero senso del termine.
“Buongiorno, prego!” Disse al cliente che venne in cassa.
“Un caffè.” Rispose con voce afona.
“80 centesimi, grazie!”
Una scenetta, questa, che si ripetette per innumerevoli volte. 
La gente entrava senza salutare, ringraziare o congedarsi con garbo; chiedeva con tono dittatoriale. Era mortificante perché nessuno avrebbe mai pensato quanto fosse brutto lavorare in un’atmosfera priva di emozioni.
La maleducazione, come un virus, si diffondeva e chi si salvava, accumulava odio; come un cane che si mordeva la coda.

Poi una luce.
Ancora un’altra.
Un flash.

Una terra devastata, rami secchi e scheletri. Un caldo insopportabile, talmente forte da far evaporare qualsiasi liquido. Non avevo consapevolezza del mio corpo dato il mio essere in quel momento evanescente ma percepì il calore; avvertì la sua presenza da un leggero bruciore.
Le case erano diroccate, in serie, crollate in angoli.
Persiane sbattute dal vento.
Increspature di vernice.
Ed un leggero sentore di: morte.
Un’insegna stradale con sfondo blu e arrugginita negli angoli, cadde sulla terra arida.
Recava l’iscrizione “Salento”.
In piccolo, in basso su quel cartello:
“Terra d’Otranto nata nel 2050”. 

Mi ritrassi come punto da un insetto, un dolore tremendo alla base del collo, conati di vomito.
Cecità.

Pensai di svenire.

“Beddhu”
Poi un’altra volta, ancora e ancora; in sequenza.
“Beddhu.. Beddhu.. Beddhu..”
A ben capire ero rimasto a fissare per un bel po’ l’immagine del piatto come un bambino estasiato di fronte a dei fuochi d’artificio. Ma quel momento era ormai terminato perché piombò il fatidico e preoccupato interrogativo della nonna:

“Beddhu miu nu te piace? Percè nu mangi?”

Ed è così che ebbe nuovamente luogo una ricorrenza celeberrima che accade una volta la settimana, per ogni settimana del mese, per ogni mese dell’anno, per ogni anno di un lustro e via dicendo e che fa parte della tradizione culinaria di intere generazioni salentine:

IL PRANZO DELLA DOMENICA.

Un pranzo che lasciava, per la prima volta, una grande preoccupazione.
E un disagio.
Per un futuro oscuro.

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