martedì 10 febbraio 2015

UN RACCONTO PER UN CONCORSO FANTASMA. [PAURA EH]

Quello che leggerete è un racconto scritto per un concorso della Provincia di Lecce. Un concorso dal titolo "La Provincia ti racconta."

Però veniamo nel dettaglio che è più divertente del racconto stesso. 

Marzo del 2013 La Provincia di Lecce ha indetto QUESTO concorso per aspiranti scrittori.


Come potete vedere dalla foto c'è tutto: gli obiettivi, l'età minima e massima e infine la data di scadenza.
Ci sono persino due moduli PDF cui scaricare il manifesto del progetto; insomma, una cosa seria.
Io, così, intenzionato a partecipare ho scritto una storia, l'ho corretta rispettando il numero di cartelle e battute, e l'ho consegnata per email alla biblioteca provinciale.
Ad Aprile.




Non avendo avuto più nessuna risposta per circa due mesi e superata quindi la fantamotatica data di premiazione, mi sono diretto all'ufficio relazioni col pubblico per saperne di più.

Mi indirizzarono sul sito internet. Ok. Lasciamo perdere. 

Dopo diversi mesi parlo con una persona che chiameremo MRX, il quale mi indica la via di un ufficio collegato con la provincia.
Paura, eh?!

Col cuore in gola, il vento ululante alle mie spalle, la luna piena.
Entro e spiego cosa è accaduto.
Mi dirottano in una stanza e lì, si mostrano gentili e premurosi quando mi rivelano che ancora non se ne sapeva nulla perché era stata spostata la data.
Colpo di scena.

Era stata spostata la data ma nessuno lo sapeva.
Dei partecipanti nessuno aveva avuto l'avviso.

La musica mi venne in aiuto.

"Mentre il cielo si schiarisce noi guarderemo stanotte che finisce il tempo va, 
passano le ore […] 
"Speriamo prima che l'estate sia finita il tempo va, passano le ore […]."

E poi il nulla, di nuovo.
Sono trascorsi ormai due anni.
Stando ad alcune voci questo progetto è stato cestinato.
Ora, era stata promessa una finale con i tre racconti migliori e tre premi: di mille, cinquecento e duecento cinquanta euro.
Due alternative mi vengono in mente come chiusa dell'articolo.

[Finale moralista]
So che la crisi economica è la prima scusa cui appigliarsi ma credo che qui non sia solo quello: è un malcostume diffuso in questo paese la promessa di qualcosa di non fattibile.
Ed è mortificante quando, chi ha il potere, promette all'umile.
Perché spesso capita che l'umile ci creda veramente.
Che il potere possa dargli una mano per realizzare i suoi sogni.

[Finale divertente e cattivo]



---------------------------------------------------------------

Ricapitoliamo.

QUI la video intervista a Simona Manca che illustra il progetto.
Queste le intenzioni della Provincia. 

[…]
Ai giovani lettori diamo la possibilità di esprimersi.
È un concorso a premi in danaro.
Politica di educazione alla lettura.
SOPRATTUTTO per i giovani. 
[…]

QUI il testo del concorso. 
QUI la pagina facebook. 

Tema del concorso è: racconta il Salento.
Brividi, lo so, ma ci ho voluto provare. 

Onde evitare ritorsioni e fare la fine di Saviano, guardate qui.



Peeeerfetto, dicevamo allora che ho scritto un racconto bellissimo e che adesso vi propongo. 
Spero vi piaccia. 

Buona lettura!

UN PRIMO PARTICOLARE 

L’esperienza più disturbante della mia vita ebbe inizio mentre fissavo la tavola imbandita a casa della nonna.
C’è molta più arte in un piatto di pasta fatta in casa che in un quadro di Dalì, pensai immaginando quel piatto prendere vita come in un musical: orecchiette giallo ocra vestite del grondante sugo rosso piccante e disposte in un conturbante ballo all’ombra di foglioline di verde basilico e, a rendere l’atmosfera più soft, una spolverata di bianco formaggio ricotta.
“Te l’ha mai dittu nisciunu ca nu se fissa?”
Alzai il sopracciglio destro, strabuzzai gli occhi e m’irrigidii.
“A tie sta dicu!”
Mi guardai intorno; poi fissai nuovamente il piatto avvicinando il viso e mi chiesi COSA STESSE ACCADENDO.
“La capita allora ca sta te parlu?”
“C–come è possibile?!”
“Suntu quiddhru ca se dice lu piattu te parla pe quantu è bonu!”
“…”
“Dai scherzava!”
“C–cosa vuoi da me?”
“Cu fazzu do chiacchiere: lu tiempu prima cu me mangi!”
“Non ho più fame, guarda.”
“Nu b’essere schizzinosu! Te ulia cu te dicu: pensa prima cu mangi!”
“Cioè?”
“Dha santa cristiana de nonnata m’ha creatu cu dh’amore ca nu se acchia chiu percè siti ormai attrezzati cu surgelati, mechidonalds, sushi. Mai pe iabbu!”
“Uao, un piatto fondamentalista che parla dei valori di una volta mi mancava.”
“Ce si difficile. Pensa ca ste orecchiette enenu de na ricetta semplice: acqua e farina…”
“Ascolta, non conosco bene il dialetto…”
“Madò sti giovani de osce! Vabbè, cercherò di parlare nu picchi in italiano. Sarò tipo Siri: ti guiderò in tre difficili situazioni della tua terra.”
Al che continuò a vibrare nell’aria solo quella voce mentre con mio sommo stupore il bianco iniziò ad inghiottire la scena.
“Immagina.”
“Puoi?” Risposi, circondato dal lucido candore del nulla.
“APRI LA CAPU, FESSA!”
“Ehi ma così mi ferisci!”

Mi ritrovai in un cielo azzurro; il sole era un astro bollente su un'immensa distesa di oceano verde e all’orizzonte si stagliava un campo di pale eoliche.
Ero stato teletrasportato: mi sentivo leggero, trasparente e pallido.
La strada sconnessa a tratti serpeggiava le campagne, le cicale frinivano e io vivevo un’esperienza extracorporea.
“Con la scusa del risparmio energetico stanno distruggendo la nostra terra. Lo sapevi che qui non crescerà più nulla?“
La situazione che si presentò ai miei occhi era impressionante; eliche che ruotavano imponenti con il tempo dettato dalle forti raffiche di vento.
“Dove siamo?”
“Sei in una delle tante campagne del Salento. Porzioni di terreno tolte ad agricoltori per costruire distese di fotovoltaico. Senti questo rumore?”
“Sì.”
“Sono le enormi pale eoliche: spaventano gli uccelli.”
Più in là l’indicazione turistica segnava “Masseria Papa”; nell’aria l’odore acre del gregge, per molti ma non per me, fastidioso.
“Basta così.” Irruppe.
Fui accecato da una serie di intensi bagliori ed ebbi la sensazione di cadere; le mie urla si dileguarono nell’estensione del vuoto. Poi qualcosa attutì l’atterraggio e aspettai un po’ prima che il frastuono nelle orecchie andasse via; ma non appena riaprii gli occhi capii quale sarebbe stato il mio nuovo scenario.
“Il traffico”. Esordì con tono cupo.
Non ci voleva; ero nella strada principale della città e tra fischi, urla e smog, la geometria andava a farsi benedire: il caos regnava sovrano.
“Conosco molto bene.” Risposi con rammarico.
“La gente non usa i mezzi pubblici, le biciclette, non va a piedi. Trascorre più tempo in quel maledetto abitacolo che con la famiglia ed ha la strana convinzione di poter far prima spostandosi in auto. Ti sembra normale parcheggiare in quel modo, tra l’altro?”

Un uomo che faceva capolino dal finestrino aspirò l'ultimo boccone di fumo, buttò via la sigaretta che emise un piccolo bagliore prima di spegnersi, e suonò il clacson convulsamente.
Un bambino, invece, lanciò via dei pezzetti di carta come fossero coriandoli.
È più facile spezzare un atomo che una mentalità, pensai aggrottando le sopracciglia.
“Guarda all’incrocio cosa accade.” Mi distrasse la voce.
C’era un’auto dietro i vigili urbani e su una corsia preferenziale; appena scattato il verde, l’uomo iniziò a strombazzare la volante. Gli uomini in divisa, visibilmente compiaciuti, spensero il motore e si avvicinarono, chiedendo i documenti.
“COME VI PERMETTETE?” Si ribellò.
I vigili, così, fecero notare che era in torto ma sembravano non riuscire a calmare l’ira dell’uomo. Il clou della scena, leggete bene perché è divertente, fu raggiunto con l’arrivo della polizia. Dopo essersi fatto quasi investire dalla volante urlò: “Dovete fare qualcosa perché vogliono farmi la multa”.
Insomma, alla fine il signore si beccò anche l’oltraggio a pubblico ufficiale e io, con ancora un sorriso amaro stampato sul volto, iniziai a camminare senza volerlo.
“Che diavolo?!”
Le mie gambe si muovevano da sole facendomi attraversare quello che trovavo sul cammino.
“Adesso viene il bello.”
Ero spinto da una forza che mi guidava come un giocattolo e che mi portò davanti un bar.
“Entra.” Tuonò.
Non avevo scelta e così, entrai.
Non diedi molta importanza alla strana sensazione che mi colse non appena raggiunsi il locale.
La forte fragranza al caffè lo rendeva accogliente e mi fece pensare che anche ad occhi chiusi avrei capito si trattasse di un bar; ma ancora non sapevo che avevo un posto in prima fila per una ultima grande sorpresa.

“Che ci faccio qui? Non mi va un caffè!” Dissi senza ottenere alcuna risposta.
Rifeci la domanda: niente.
Ero uno spettro in un folto gruppo di persone che attendevano il turno.
Cercai di alzarmi sulle punte dei piedi per scorgere qualche indizio sul perché fossi li, ma ancora una volta: nulla.
Cavolo - pensai - posso attraversare la materia in qualità di fantasma! Così, dopo essermi concentrato lo feci. Il problema fu la sorpresa che mi si presentò: qualcosa che nemmeno nelle fantasie più egocentriche avrei mai potuto immaginare.

Fermi un momento e riavvolgo il nastro per chiarire un punto. Nel momento in cui sono stato catapultato in questa esperienza, a quanto pare, ho perso i miei ricordi. Non ho più avuto consapevolezza di me stesso, potendo solo osservare e riflettere.
Vi scrivo questo perché ciò che mi si parò davanti non era altro che me stesso.
Quello reale, insomma.

Surreale fu la prima parola che mi venne in mente.
Incuriosito, mi avvicinai. Dopo aver gesticolato come un forsennato e scoperto un paio di punti neri sul naso, capii che lui o me, non so come dire, non avvertiva minimamente la mia, la sua o la nostra presenza.
Ero stato abbandonato a me stesso nel vero senso del termine.
“Buongiorno, prego!” Disse al cliente che venne in cassa.
“Un caffè.” Rispose con voce afona.
“80 centesimi, grazie!”
Una scenetta, questa, che si ripetette per innumerevoli volte. 
La gente entrava senza salutare, ringraziare o congedarsi con garbo; chiedeva con tono dittatoriale. Era mortificante perché nessuno avrebbe mai pensato quanto fosse brutto lavorare in un’atmosfera priva di emozioni.
La maleducazione, come un virus, si diffondeva e chi si salvava, accumulava odio; come un cane che si mordeva la coda.

Ancora una volta scoraggiato mi misi a riflettere: siamo Salentini non pugliesi, ma quanto questo modo di pensare ci ha reso superficiali dando per scontato che il posto dove siamo nati sarà per sempre così meraviglioso, come se vivessimo in un Eden. Invece dovremmo curare ogni giorno questa valle perfetta, preservandone così la nostra integrità psichica e morale.
Il tempo come si sa è cinico, spazza il vecchio per far posto al nuovo e allora quale futuro ci attende se non rinunciamo ai compromessi malavitosi per deturpare le campagne? Come faremo ad invecchiare bene se trascorreremo più tempo ad odiarci perchè nessuno rispetta il prossimo?
Siamo tutti prodotti del nostro ambiente e non abbiamo bisogno di estraniarci dalla realtà con l'arte o con la droga perché basta semplicemente trascorrere una giornata ad osservare la gente: questo fu il riassunto della mia esperienza.
Tutt’un tratto avvertii freddo e mentre pensavo cosa fare per uscir fuori da questo strano viaggio, qualcuno mi chiamò con tono preoccupato.
“Beddhu”
Poi un’altra volta, ancora e ancora; in sequenza.
“Beddhu.. Beddhu.. Beddhu..”
A ben capire ero rimasto a fissare per un bel po’ l’immagine del piatto come un bambino estasiato di fronte a dei fuochi d’artificio. Ma quel momento era ormai terminato perché piombò, come un tuono, il fatidico e preoccupato interrogativo della nonna:

“Beddhu miu nu te piace? Percè nu mangi?”

Ed è così che ebbe nuovamente luogo una ricorrenza celeberrima che accade una volta la settimana, per ogni settimana del mese, per ogni mese dell’anno, per ogni anno di un lustro e via dicendo e che fa parte della tradizione culinaria di intere generazioni salentine:

IL PRANZO DELLA DOMENICA.

marcodemitri®







Nessun commento:

Posta un commento