martedì 29 gennaio 2013

Zero Dark Thirty [Recensione]





Non è solo la ex moglie di James Cameron.
Perchè prima che la Bigelow avesse maggiore risonanza mediatica fu la donna che diresse Point Break: un muscolare e belloccio film d'azione passato alla storia per i famosi rapinatori con indosso le maschere di alcuni presidenti degli Stati Uniti.
Sì, Aldo, Giovanni e Giacomo ne sanno qualcosa.
Per non parlare della notte degli oscar del 2010, che gli rese sei statuine per il suo The Hurt Locker e tante maledizioni dell'ex uscito a mani vuote con Avatar.
Un trattamento quasi da Veronica Lario, insomma.
Ma messo da parte il gossip, Kathryn Bigelow è una donna intelligente, bella e preziosa. Il suo ultimo Zero Dark Thirty (da ora in poi abbreviato in ZDT) non è solo "il film sulla cattura di Bin Laden": è la doppia faccia di un America ambigua e poco determinata, che si affida ancora una volta alla lungimiranza dei singoli per compiere le scelte più difficili.

Maya, giovane e brillante agente dei servizi segreti, dopo il 9\11 ha il solo scopo di trovare e assassinare Bin Laden: viene così assegnata in Pakistan a lavorare con Dan, agente della CIA presso l'ambasciata americana. Nei primi mesi il suo incarico è quello di assistere il collega durante gli interrogatori in Siti neri, prigioni non localizzate dove si fa uso di tortura, per trovare le tracce del nemico #1. Ma tra escamotage, attentati e cambi di piani politici, la situazione muta quando l'operazione complessa è portata a termine. Nella notte del maggio 2011 il Team 6 dei Navy Seal statunitensi irrompe nell’anonima residenza di Abbottabad, in Pakistan, dove il terrorista super ricercato risiede e dove troverà la morte.

Anzitutto partiamo dal titolo: che cosa vuol dire.
"Si tratta di un termine militare che indica i 30 minuti dopo la mezzanotte e si riferisce anche al mistero e alla segretezza che caratterizzarono l'intero decennio della missione" spiega la Bigelow al termine del primo teaser trailer.
Ora, quando una pellicola desta scalpore e scatena una bufera polito – mediatica due sono le cose: o fa paura o è una scelta di marketing.
A dire il vero a volte può essere entrambe ma non è questo il caso.
ZDT è un film drammatico potente che scorre, come fosse un'inchiesta giornalistica, senza moralismi, paternalismi o donne con il mestruo.
È in un perfetto equilibrio tra intrattenimento e esigenza di raccontare la verità. Ed è forse questo lo snodo centrale: il fatto che la sceneggiatura fosse colma di informazioni segrete portarono alcuni senatori ad avviare una vera e propria indagine per capire se ci fosse stata una collaborazione tra il presidente Obama e la troupe, se avesse dunque messo a repentaglio la sicurezza nazionale.
Addirittura, ci aggiungerei.
Ma Kathryn Bigelow e Mark Boal (sceneggiatore), che negarono qualsiasi coinvolgimento, sanno molto bene come raccontare una guerra. Con The Hurt Locker, pellicola al cardiopalma, sopravvalutata ma ben fatta, assottigliarono il confine tra la dipendenza da adrenalina e la scelta di fare il militare: l'esaltazione celata da patriottismo.
In ZDT invece è tra vendetta e giustizia che scompare la linea di demarcazione, lasciando lo spettatore più volte in bilico e quasi disincantato.
I due impostando uno script complesso ma snello, con una leggera apologia dell'uso di metodi brutali in stato di necessità, completano un film coraggioso, coinciso e ben diretto.
Ma per far funzionare il tutto serve anche un ottimo cast: con la strafottenza di Joel Edgerton e la fragilità emotiva di Jessica Chastain si ha quel tocco distaccato e mai romanzato. Si può dire che si tratta di un Homeland (serie televisiva) senza ingenuità.
Fotografia realistica di Greig Fraser, montaggio ben scandito arricchiscono poi un film che funziona, ripeto.

Insomma, a meno che non siate parenti di Bin Laden, andatelo a vedere.

                                                                                                                                        marcodemitri ®

giovedì 24 gennaio 2013

Piccoli Omicidi Tra Amici [Recensione]






Prima che Danny Boyle raggiungesse il successo con Trainspotting e la popolarità con The Millionaire, diresse un piccolo film, sottovalutato come The Beach, che a conti fatti è una brillante commedia nera. 
La trama è tratta da un soggetto di John Hodge, sceneggiatore di altre pellicole del regista.

Tre amici cercano un quarto coinquilino con cui dividere l'affitto. 
Manco fossero ad American Idol, i tre tempestano di domande irriverenti e spregiudicate chiunque risponda all'annuncio, fino a quando non si presenta un misterioso romanziere, che senza esitazione consegna i soldi della retta. Un giorno, però, questi viene trovato morto, apparentemente di overdose, nel suo letto e con una valigetta piena di soldi. 
I tre decideranno di seppellire il cadavere, prendere il denaro e non parlare a nessuno dell'accaduto; ma questa scelta comprometterà i loro rapporti. 

Boyle, che al cinema è arrivato a 38 anni, regala una commedia nera, miscelata di citazioni e generi diversi. A lui non interessa raccontare la dinamica dei fatti, bensì come le relazioni umane si scontrano con le coscienze individuali. Come nelle più classiche delle tragedie, si attraversa la commedia per poi terminare con un finale colmo di colpi di scena violenti. 
Il trio è ben reso nella più classica delle triadi filosofiche, rappresentato da personaggi in combutta morale tra loro: troviamo il menefreghista, il moralista e infine il riflessivo. La pellicola proceda lentamente per step, mostrandoci di volta in volta le conseguenze della singole azioni, sembra di assistere ad una sorta di dilazionamento del karma. Inserendoci tra l'altro anche venature horror grazie ad un uso di musiche e montaggio. 
Una commedia intrisa di ironia nera, che si affida il più delle volte alla vivacità di Ewan McGregor - sua prima volta sullo schermo da protagonista - e riesce a potenziare il suo impatto sullo spettatore. 
Molti saranno poi gli spunti per Trainspotting e altre sue opere. 

Si può dire dunque un esperimento ben riuscito, che mischiando generi diversi, colpisce con pungente e sano humor nero. 
Ottimo esordio. 

domenica 20 gennaio 2013

Flight [Recensione]





Ho sempre amato le pellicole forti, dure, che sanno raccontare storie borderline. Senza ingenuità.
Certo non esente da difetti, neppure un capolavoro, ma Flight è un riuscito sviluppo di una odissea poco digeribile.

Il capitano Whip Whitaker (Denzel Washington) è un alcolizzato e cocainomane e sarebbero fatti suoi se non facesse il pilota di aerei di linea.
Proprio durante uno dei suoi voli di routine che succede l'impensabile: un'avaria di un componente del motore fa precipitare l'aereo. Ma grazie ad una straordinaria intuizione, il capitano riesce a salvare i passeggeri.
Il problema è che gli esami tossicologici riveleranno droga e alcool nel sangue. E così il passo da eroe a nemico è breve.
Tra sensi di colpa e accuse, il suo inferno terminerà con non poche cicatrici.

Nel favoloso mondo di Zemeckis, segnato dal capolavoro della trilogia Ritorno al Futuro, il gigionesco Forrest Gump, l'esperimento meta cartoonesco Chi ha incastrato Roger Rabbit e alcune porcherie, Flight rappresenta un momento alto della sua filmografia. Armato di una sceneggiatura potente e politicamente scorretta, con solo alcuni nei dovuti ad una migliore resa nella trasposizione da carta a schermo, il film offre spunti di riflessione sul significato della redenzione. Ma non solo. Denzel Washington, che finalmente ci regala una interpretazione autentica, come non si vedeva da John Q tanto per intenderci, è un personaggio dilaniato tra volontà di cambiamento e accidia. Perfettamente ritagliato nel suo spazio, il capitano è il buono e il villain allo stesso tempo. Ma un'altra riuscita della pellicola è rappresentata dall'uso senza moralismo di fumo, alcool e droga. Quasi stampati sul volto paffuto e l'entrata in scena demoniaca con tanto di "Sympathy for the Devil" del meraviglioso John Goodman. A completare il cast, ottimi Don Cheadle e Bruce Greenwood.
Esemplare anche il modo di presentare la religione come contorno pungente.

Dunque un film riuscito, ben interpretato e diretto.
Di quelli che sanno come comunicare e colpire.
E che lasciano in bocca un vago sapore della massima "prima o poi tutti i nodi vengono al pettine".

Super - Consigliato.

venerdì 18 gennaio 2013

Django [Recensione]


Prologo. C’era una volta un pittore che, oltre a dipingere quadrati spacciandole per persone, disse "I grandi artisti non copiano, rubano".
Ed infatti Steve Jobs si fregò la frase.
Ed i quadrati.
Diventò un genio.
Ci guadagnò.
E poi morì.


Premessa
Sono un grande fan di Tarantino.
Di quelli che amano Jackie Brown e considerano Le Iene il suo film più riuscito senza nulla togliere a Pulp Fiction.
Di quelli cui piace Death Proof perchè autoreferenziale e narcisista e guardano con un occhio critico il volume uno di Kill Bill.
Di quelli che hanno nel cuore Inglorious Basterds ma non dimenticano il dito mozzato di Tim Roth.
Perché il cinema di Tarantino o lo si ama o lo si odia. E io gli voglio bene.
Ho trascorso parte della mia adolescenza a studiare l’intreccio di Pulp Fiction, ad inscenare il triello e citare quasi ossessivamente la famosa “Ezechiele 25:17” ma se c’è uno dei capisaldi della sua produzione che più di ogni altra cosa amo è quel linguaggio scurrile, veloce, dissacrante e a volte surreale: insomma di quei discorsi che seriamente c’entrano ben poco con il tipo di storia che mette su. Passerei ore a riascoltare lo sproloquio sulle mance, sul sistema metrico decimale, sui massaggi ai piedi e il De Niro allucinato perso nei grandi magazzini.
Tarantino è “Un’enciclopedia vivente” che, come un bambino eccitato di fronte un giocattolo nuovo, smonta e rimonta per trovare ancora ispirazione; un’abilità paragonabile alla tecnica del rampino di D’Annunzio: prende quello che gli piace, lo incastra bene e ci crea qualcosa di unico.
Per poi dire “faccio film che piacciono a me”.
Che piacciono a lui, appunto.
E a volte piacciono anche al pubblico. 

Capitolo 2: Trama.
È la storia di uno schiavo nero, Django (Jamie Fox), liberato da un buffo ma onesto cacciatore di taglie, King Schulz (Cristoph Waltz). Uniti da un iniziale legame di favore, i due si alleeranno per salvare la moglie di Django, Brunhilda (Kerry Washington) al servizio di Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), uno spietato schiavista proprietario di una piantagione a Candyland.

Capitolo 3: Cosa funziona.

Su una cosa Spike Lee ha ragione: Tarantino è un bianco che vuole fare il nero. E ci riesce. Perché Django è un film sui neri che racconta meglio di Fà La Cosa Giusta la segregazione razziale. Con irriverenza e quasi fastidiosa ripetizione della parola “negro” si prende gioco dei luoghi comuni razzisti per fronteggiare l’ignoranza della supremazia dei bianchi, in un viaggio attraverso l’America bifolca e arida del sud.
L’impresa c’è riuscita perché il film è ben fatto e diverte; chi apprezza Tarantino, avrà modo di constatare tutti gli elementi della sua poetica. Anche l’essere logorroico: il film supera la durata di due ore e mezzo per una storia che poteva essere raccontata in novanta minuti scarsi.

Capitolo 1: Cosa non è. Ora, è un po’ una situazione imbarazzante quella di dover dire che Django non è né un western né uno spaghetti western. Non è nemmeno un omaggio, a parte forse il nome, allo Django originale. Quindi i vari nostalgici che pensavano Tarantino si sarebbe preso la briga di riportare in auge il genere, sono avvisati.
Ma guardiamo in faccia la realtà: è una blaxploitation. Un film con tanti neri sui neri che trattano di storie di neri. È come se avesse voluto continuare Jackie Brown ambientandolo in un deserto nell’800, infarcendolo di una fotografia migliore e puntando ad ampliare la scena con sketch divertenti e molti personaggi surreali.


Capitolo 4: Perplessità.
La sceneggiatura è bella ma al tempo stesso la più lineare della produzione tarantiniana. Ed è questo il nero del film. Perché se da una parte Mr. Orange si diverte a reinventarsi e cambiare genere, dall’altra si affida ad una regia studiata, ad un fotografia sublime e alla bravura degli attori e non colpisce più. Anzi, sembra che a volte si lasci prendere la mano e dia troppo spazio al personaggio fuori le righe che si è costruito.

Epilogo.
Ed ecco qui che torniamo al prologo.
Il suo cinema è un plagio ben riuscito, ben diretto e ben orchestrato.
Ma come per ogni plagio c’è sempre il rischio che possa andare qualcosa storto mostrandosi per quel che è: un’accozzaglia.
Molto figa e “Hip Hop”, in questo caso. 

Cose belle: 
- Spruzzo di sangue su una piantagione di cotone; 
- Scena demenziale sul KKK; 
- Scenette con sottofondo rap;
- Faccine da gay di Leonardo Di Caprio; 
- Maschere masochiste sugli schiavi del Mississippi; 
- Interpretazione di Waltz;
- Oscar onorario a Samuel L. Jackson. 

Consigli: 
Oltre recuperare tutti i suoi film, consiglio vivamente di vedere True Romance (Una Vita al Massimo), sua prima sceneggiatura per un film diretto dal "pace all'anima sua" Tony Scott.
E se volete vedere George Clooney nella sua migliore versione "da cazzone", sparatevi Dal Tramanto all'Alba di Rodriguez. Tarantino oltre ad aver curato anche questa volta la sceneggiatura, interpreta un serial killer. 

Insomma, non ha tutti i torti quando dice "Se non fossi diventato regista, sarei stato sicuramente un Serial Killer". 


giovedì 10 gennaio 2013

Frankenweenie 1984 vs 2012 [Confronto e Recensione]



Se c'è un pregio del cinema di Tim Burton è quello di saper dare il giusto spazio al grottesco, miscelandolo alla quotidianità e componendo così qualcosa di unico e inquietante.
Il problema è che il nuovo Burton, reduce ormai dal successo di pubblico, dalla fanboyaggine (passatemi il termine) e dalla totale ammirazione di Johnny Depp, non funziona più. 
Basta vedere i suoi ultimi prodotti: Alice in Wonderland e Dark Shadow. Non solo. 
Proviamo a pensare allo splendido Edward Mani di Forbice e a cercare gli elementi che hanno reso unico il suo cinema; niente di tutto ciò, oramai, compare nelle sue opere. 
NULLA. 
Il perchè ve l'ho già spiegato e anzi aggiungo: Tim Burton avrebbe dovuto continuare con l'impostazione data dal meraviglioso Ed Wood. Un film in cui riuscì a sensibilizzare il pubblico con un'immagine dolce del peggior regista di tutti i tempi.
Per non dimenticare lo stupendo BeetleJuice con un fantastico Michael Keaton. 
Parliamo dunque di un un modus operandi che gli ha permesso di porre su un piano adulto quelle che sono le paure infantili più diffuse: uomo nero, asocialità, divorzio, mostri di ogni genere. 
E non solo, tutto ciò è stato fondamentale per completare il soggetto di uno dei film più evocativi dei nostri anni: Nightmare Before Christmas. Lasciando poi da parte Mars Attack!, il pessimo remake del Pianeta delle Scimmie e lo stucchevole Il Mistero di Sleepy Hollow
Ma è con La Sposa cadavere che sembrava, e sottolineo sembrava, esser tornato ai vecchi fasti di un tempo. Peccato poi sia ricaduto miseramente con il pessimo Sweeney Todd. 
Un film, che non riesce a superare l'originale di Steven Sondheim; forse da salvare solo per le scenografie di Dante Ferretti e l'interpretazione di Sacha Baron Cohen.
E ok, cercando di essere super partes, aggiungo Batman per l'unico merito di aver sdoganato i super eroi sul grande schermo.

Bene, detto questo, parliamo dei corti. 
Sapete, Burton fu licenziato dalla Disney per la sua ossessione per gli scheletri. Fu infatti accusato di aver sperperato le risorse degli studios per prodotti per niente adatti ai bambini. 
Tra i corti, che segnarono gli inizi, il più importante fu sicuramente Frankeweenie
Lo spartiacque della sua vita. 

Ma nel 1984, il corto fu realizzato con un budget ridotto, con protagonisti in carne ed ossa e una storia che nella sua mezz'oretta scarsa, forniva tutti gli elementi del suo futuro cinema. Una commedia nera omaggio diretto al Frankestein di Shelley e trasposto in un bellissimo ritratto infantile. 
Un bambino che riporta in vita il suo amato cane investito da un'auto. La sua felicità però dovrà far presto i conti con la riluttanza del vicinato, poco propenso ad accogliere un "mostro". 
Il climax è dunque posto nel rapporto tra la comunità e il diverso, sì, insomma, uno dei capisaldi del cinema di Burton. Una storia dunque perfettamente funzionale per tempo e immagini proposte.
Con una audace ma ottima scelta di una fotografia in bianco e nero, diretto splendidamente e interpretato bene.

Ma cosa accade nel 2012?
Flashback.

Il corto fu distribuito successivamente in home video e rivalutato, complice il successo di BeetleJuice. 
Nel 2007 la Disney da carta bianca per la preparazione di un remake dell'omonimo corto. Burton insieme allo sceneggiatore di altre sue opere John August, ampliano e trasformano il tutto in stop motion.
Cercando di omaggiare i classici horror anni 30, Burton amplia la pellicola inserendo personaggi mostruosi.
Da un corto diventa un lungometraggio animato di un'ora e mezzo
Ma cosa accade?
Assistiamo ad un'inutile operazione di approfondimento della trama, con un inesorabile snaturamento dell'ottimo lavoro del corto. Si assiste ad una serie di scenette disorganizzate con personaggi che cercano di creare una cornice più solida e variegata della comunità descritta. Non più antagonisti semplici e quasi comprensibili, ma macchiette fastidiose e patetiche. E sebbene nel corto, lo stato emozionale del bambino era reso benissimo dalla sua vivacità, qui, sembra di assistere ad uno spettacolo già visto e ripreso dalla sposa cadavere. Tant'è che i character design appaiono gli stessi.
Forse l'unico punto a favore è una bella regia. 

Un animazione che fallisce nel suo tentativo di riportare in auge un corto bellissimo e in qualche modo il Burton degli esordi. 
Confermando così la regola che a volte non serve un budget enorme per realizzare un capolavoro.

- Salvo solo una scena in puro stile Tim Burton.
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=6WsfVPHEK94

- Il corto può essere visto gratuitamente su YouTube, qui.


mercoledì 9 gennaio 2013

Non tutte le influenze vengono per nuocere.

Dal momento che sono sigillato sotto le coperte a trascorrere le giornate contando i gradi della mia temperatura, con intervallo variabile dalle 4 alle 5 ore, non ho niente di meglio che rincoglionirmi guardando film, serie TV e ogni tanto leggere: giusto per ossigenare le mie sinapsi.

Ma è in uno di questi momenti che ho avuto una illuminazione: ma quando non esisteva internet come mi divertivo?
Ah, giusto, uscivo fuori a giocare.
No, no.
Che dico?
Ero sempre al PC ma a squartare zombie, rubare auto e finire missioni per la Yakuza.
Insomma, I VIDEOGAMES.
Ecco cosa posso fare.
Beh, spero proprio che questa influenza non passi: non vorrei riprendere a vivere.

HO PAURA DI INFLUENZARMI DI NUOVO.

martedì 8 gennaio 2013

L'amore fa male.

Fuori la finestra l'insegna "Tabacchi - Lotto" mi fissa; è amputata dall'ombra di un palo. 
Bianco, nero, bianco. 
Taba i - Lotto. 
Odo in sequenza il motore acceso di una fiesta, monetine che rimbalzano melodicamente sull'asfalto, lo sportello chiuso rumorosamente e l'auto riparte. 
Ombre soffuse di sconosciuti proiettate in una fredda atmosfera di un tratto del paese. 
Il buio macchiato da colore ambra. Giallo ocra. 

Flash.
Dammi forza
Flash
Lei mi parla.

Ilva è stesa sul letto; tossisce e nebulizza catarro dalle narici. 
La bocca dalle labbra disposte in un cerchio rotondo e carnoso aspira l'ultimo boccone di fumo: la sigaretta emette un piccolo bagliore prima di spegnersi. 
È tardi per le scuse.
Lei lo sa ma preferisce perdere tempo toccandosi convulsamente la patta dei suoi jeans biascicando frasi confezionate. 
Come fossero parole dolci. 

'Non posso innamorarmi' dice.
I capelli visibili a tratti perchè offuscati da nuvole di fumo.
Trattengo un colpo di tosse. 
Trattengo un tremolio.
Trattengo lacrime. 

'L'amore fa male' Ripete.
Non avevo mai pensato a quanto fosse imbarazzante il silenzio in quei momenti. 
Sei nudo sentimentalmente. 

Flash
Cap 4. Lezione di biologia del professore Centonze. 
Flash
Il pene goffamente stilizzato. Perverso. Disegnato appena sotto il titolo del capitolo: Cuore.
[...] In casi particolari di stress emotivo e\o fisico si possono verificare extrasistoli: forme di aritmia. 
Le pupille si dilatano. 
La gola è secca. 

E tu cosa riesci a dire?
Dammi Parole.
Dammi Vocali: A E
Poi giunge il 'Mi dispiace'. 
E adesso? Non puoi certo biasimare qualcuno che si scusa: saresti una brutta persona.
Dammi diplomazia.
Dammi risolutezza.
Dammi forza.

Il fetido odore di vergogna sale fin sopra l'ippocampo. 
La paura come una scimmia si aggrappa sulla schiena lasciandoti urlante nel vuoto del silenzio.
Si spengono le luci.
Cala il sipario. 
Niente applausi.
Solo fischi. 

E un conto da pagare al suo pappone. 

domenica 6 gennaio 2013

Carrie Mathison [Amore a prima vista]


Era da tempo che non mi innamoravo di un personaggio femminile televivo.
L'ultima volta è successo con la regina Cercei Lannister.
E di certo non tradirò mai il mio primo amore: Dana Scully.
Ma dopo le due stagioni di Homeland come si fa a non restare stregati dalla bravura e il fascino di Carrie Mathison? Una protagonista ipnotica, folle e fragile: esempio di scrittura molto accattivante e intensa. Forse l'unico elemento ben fatto della serie.
Un'attrice cresciuta moltissimo dopo la sua insipida parte in Romeo + Jiuliet.
 

 






venerdì 4 gennaio 2013

Jack Reacher [Recensione]




Raccontare l'azione non è facile come può sembrare.
Ci sono mille sfaccettature da gestire per far sembrare, e ripeto sembrare, il tutto coerente; sì, anche un'auto che volando, sfascia la vetrata di un grattacelo.
Dunque ci vuole mestiere e tanto ingegno per inventare storie credibili e allo stesso tempo intriganti.
Come in questo caso.

Jack Reacher è il personaggio di una serie di romanzi di Lee Child: un inglese che vuole fare l'ammerigano.

Un ex soldato dal motto "voglio essere lasciato in pace" che conduce uno stile di vita da vademecum per gli Amish.
Non usa cellulari, non ha macchina, non parla molto e non ha una fissa dimora; vive nell'anonimato e appare all'improvviso solo per far giustizia.
Insomma un The Punisher meno risolutore e più pettinato.
La storia si incentra su un cecchino che spara e uccide tra la folla cinque persone. La scena del delitto è una miniera di prove e conduce al killer. Ma è la perfezione del tutto che spinge Jack ad indagare più a fondo e scoprire la verità: un complotto orchestrato per sviare l'attenzione da qualcosa di più grosso.

Tom Cruise è il protagonista e finalmente sembra essersi riscattato dopo lo scempio del 2012. Maturato e in gran forma come lo ricordo in Collateral, dà prova di forza e recitazione in questo ruolo: disegnatoli perfettamente.
E non solo.
C'è persino un Robert Duvall invecchiato ma divertente come spalla.
Dietro la macchina da presa, con una regia solida e senza particolari virtuosismi, torna Christopher McQuarrie storico per I soliti Sospetti e ripresosi dopo il deludente The Tourists.
Sua la sceneggiatura, tratta dall'opera del su citato Lee Child, riesce a dare il giusto spazio ai personaggi, ricamando una trama solida e ben calibrata. Perde, causa anche la durata, nel fornire dettagli, ma si lascia perdonare per l'ottimo giro di boa finale.

In poche parole un action movie veloce e ragionato, che omaggia i film d'azione del passato con gli strumenti del thriller moderno.

Molto consigliato.

La Regola del Silenzio [Recensione]




Che i thriller moderni siano ormai infarciti di politica e lotta al terrorismo è lampante. Voglio dire, è difficile trovare altri temi nell'attualità oltre questi. Quindi risulta complesso riuscire di volta in volta a intessere trame intriganti, che non sappiano di già visto, insomma.
Redford ci riesce almeno in parte.

Una donna viene scoperta dall'FBI come latitante da oltre trent'anni. Faceva parte del collettivo anarco insurrezionalista contro la guerra in Vietnam. Di conseguenza i suoi vecchi colleghi, vengono allo scoperto e iniziano a fuggire. Solo uno di loro, un avvocato con falsa identità, cercherà in tutti i modi di trovare le prove: ma per cosa? Un giornalista inizierà a raccogliere i pezzi del puzzle per scoprire la verità.

Dopo i poco brillanti Leoni per Agnelli e The Conspirator, Redford confeziona un thriller semplice. Con una sceneggiatura infarcita di taglienti battute sulla situazione giornalistica e imperialista americana, il film si accende cercando di proporre toni controversi. Con poco carisma.
La pellicola traspira esperienza sessantottina da tutti i pori, complice il grande polso di Redford, ma diventa ingenua quando cerca di osare.
Parliamoci chiaro: è ben strutturato. Ma fa il suo lavoro. Un thriller Intelligente quando pone l'interrogativo sullo spazio da riservare al giornalismo nel privato, patetico quando cerca di strutturare una caccia all'uomo. Con un Redford, tra l'altro, che assomiglia ad un Sylvester Stallone in giubbotto di pelle. Shia Lebaouf, poi, l'attore più sopravvalutato di sempre. Susan Sarandon che lascia recitare le sue occhiaie e un Terrence Howard per la serie "il nero duro capo dell'FBI". Ottimi per il poco tempo riservatoli, Stanley Tucci e Nick Nolte, quest'ultimo ormai sembra un personaggio simpsoniano.

Dunque una pellicola che si lascia guardare, intriga fino ad un certo punto ma non eccelle.
Consigliato ai fan del genere.
E alle amanti di Robert Redford.

mercoledì 2 gennaio 2013

Ridi, ridi che la nonna ha fatto gli Emmy [Il Meglio e il Peggio delle Serie TV 2012]


Dopo gli Oscar-fatti-in-casa, passiamo agli Emmy.

MIGLIOR PRODOTTO 2012












Black Mirror
Tre episodi intensi, magistralmente diretti, che indagano con ferocia e drammatica ironia le complicazioni che crea la tecnologia nei rapporti sociali.
Interpretazioni splendide al servizio di una sceneggiatura di ottima fattura.
Se siete fan di Ai Confini della Realtà, non potete per niente al mondo lasciarvelo scappare.
Se vivete per i reality show o i social networks, stesso consiglio.
E ovviamente, anche voi, che non siete fan né dell'uno né dell'altro.


MIGLIOR SERIE DELL'ANNO



Breaking Bad (5° - Prima Parte)
Con una serie di eventi che dirottano il tutto verso il season finale, si accende una sfida che sulla carta sembrerebbe epocale. Una serie scritta splendidamente e girata da dio, in cinque stagioni non si nota nessun calo.
Un padre ai tempi della crisi e i modi stravaganti per preservare il futuro della famiglia.

MIGLIOR SERIE CANCELLATA 



Last Resort (1°)
Intrigante, particolare e con alta dose di spionaggio. Peccato non sia riuscita a farsi accettare ed amare dal pubblico. Un peccato soprattutto per la trama a suo modo anti americana.
Una serie da vedere ma che si conclude, purtroppo, con solo una stagione.

MIGLIOR SERIE CON GRANDE POTENZIALE



Homeland (1°)
Se parlassimo delle prime sette puuntate, questa serie non avrebbe nulla da invidiare a qualsiasi thriller. Purtroppo dobbiamo includere anche i restanti cinque episodi. Non che siano brutti, più che altro ingenui perché destinati ad un pubblico commerciale.
Nonostante ciò, piace: anche complice il casting e la regia.

PEGGIORE SERIE SCRITTA



Dexter (7°)
Come ogni anno, ormai da circa cinque anni, Dexter vince il premio per peggior sceneggiatura. Superficiale e nosense, l'ottava stagione aveva grandi potenziali per riuscire a far risalire a galla il serial; ma niente.
Crolla a picco per l'ennesima volta, regalandoci però un fan service spettacolare: SURPRISE MOTHERFUCKER?

PEGGIOR SERIE DIRETTA



American Horror Story (2° - Prima Parte)
Dopo una splendida prima stagione, telefonata ma fatta bene, la seconda si apre con una nuova location. Ma è confusione. Mancanza di un vero e proprio filo conduttore tra gli eventi e di una coerenza nei personaggi, il serial perde una grande occasione per creare qualcosa di unico nel genere, nuovamente.

SERIE DROPPATA SUBITO



The Newsroom (1°)
Ho iniziata a vederla perchè appassionato di giornalismo. Ma ahimè, mancanza di pathos e di climax, mi hanno portato a dropparla fin da subito. Eppure dopo Six Feet Under e perché no: Mad Men, son abituato a questo genere di sceneggiature lente. Una serie noiosa e ingarbugliata come poche. Un gran peccato dopo i primi 10 minuti del pilot.

SERIE MEDIOCRI MA CHE SI LASCIANO GUARDARE

How I Met Your Mother (8° - Prima Parte)
Anche qui, il calo è enorme.
I personaggi, completamente assenti nei loro tratti, parlano e innestano una serie di azioni per un continuo susseguirsi di storie fredde e poco brillanti.
Dropparla, anche senza conoscere il finale "rivelatore", è a portata di dito.
Speriamo in una seconda parte più vivace.

The Big Bang Theory (8° - Prima Parte)
È vero: si regge tutto su uno Sheldon scontatissimo e un'ambiguità di Raj stucchevole. Ma che ci posso fare, la serie riesce a farmi passare 20 minuti della mia vita in totale rilassatezza. È un po' come quando ti stendi su un letto poco comodo: fa sempre il suo dovere.

IDOLO 2012 [Rischio Spoiler Dexter]